giovedì, febbraio 11, 2010

Parte 23 - Sanna e i Fenicisti

Da: Gianfrancopintore.net
I fenicisti e il pudore
Mercoledì 26 Novembre 2008 08:30
di Gigi Sanna

Diciamo francamente che siamo stufi. Sì, stufi di sentir parlare di parchi, soprattutto in una zona che per istituzioni limitative, esclusive e/o pseudoprotettive sembra ormai avere una particolare vocazione. Infatti tra parchi e zone protette il golfo di Oristano vanta già un areale di tutto rispetto: i
Stele di Nora

La stele di Nora

l parco marino a Nord ed il ‘parco’ (in effetti lo è dal punto di vista geo-zoo-naturalistico) base militare a sud. Restava libera quella centrale. Ed eccoti la stravagante trovata: l’asse geografico, con collante archeologico porporino, Tharros - Neapolis. Con l’Othoca, sito amato fin dalle fasce e dai primi vagiti dal proponente, a far inopinatamente da vigoroso fulcro.
Nella vicenda lo studioso oristanese potrebbe essere in buona fede. Anzi, se si esclude un umano e per questo perdonabile pizzico di (malcelata) vanità per certi suoi studi, diciamo che lo è.
Ma la politica proprio no. La politica, si sa, segue spesso vie malsane perché demagogiche ed è particolarmente sensibile, soprattutto in periodo di elezioni (le prossime saranno o a febbraio o in primavera) a recepire idee ritenute innovative sul piano pseudoculturale. Soprattutto quando queste possono richiamare altre idee birichine sul piano economico che evocano altre idee ancora sul piano della dirigenza, dell’organizzazione del lavoro e sul lavoro stesso. Insomma, idee non con solide gambe ma con ruote traballanti da pittoresco carrozzone elettorale.
E non ci stupisce pertanto che le due province, con alcuni papabili già in ‘fregola’, abbiano aderito con entusiasmo all’iniziativa. Anzi, a seguire ci sarà forse un parco per la zona della bottarga (‘fenicia’, oltre il resto, a sentire i feniciomani) di Cabras e di S.Giusta; un parco per la zona della vernaccia di Riola, Baratili, Solarussa; un parco per le dune di sabbia, dal Sinis a is Arenas di Arbus; un parco, da Pallosu di S.Vero sino a S’Ena Arrubia di Arborea, per i fenicotteri; un parco per la ‘gioga minudda’ del Sinis; un parco tra Terralba e S.Nicolò Arcidano, per il vitigno del rosso Bovale di Spagna; un parco per la variante dialettale arborense ed un altro ancora per la lingua di mesania di Abbasanta, Paulilatino e Norbello. E perchè no? Forse anche un piccolo parco o parchetto per le case contadine e pastorali del mio ‘brugu’ di Oristano sconvolto in tutte le viscere dalle fameliche ruspe di un’ignorante e inculturata piccola borhesia.
Intendiamoci però. Con ciò non si vuole dire che il ‘parco’ (con la nuova accezione semantica) di per sé sia un’istituzione da buttar via. Non lo è di certo quando vuol essere, ma in casi del tutto eccezionali e, soprattutto, democraticamente accettati dalle popolazioni, un modo per tutelare un luogo ed un territorio che altrimenti rischia l’oblio, la desertificazione, lo snaturamento e la morte per totale mancanza di attenzione e di vigilanza.
Manifesto

La pubblicità sul

E’ il caso, per fare un esempio, del parco (e museo nello stesso tempo) geo - minerario di Montevecchio (e del Sulcis in genere) luogo in disastroso abbandono che vanta la singolare testimonianza documentaria di millenni di sacrifici e del lavoro di estrazione dei metalli delle popolazioni sarde, a partire già prima dell’alba dell’invenzione dei bronzetti e dei primi verruti dei guerrieri Shardana.
Quando invece si tratta di trovate, di primo mattino e ad occhi ancora cisposi, come quella di un parco archeologico nel/del Golfo di Oristano, la proposta non può essere che essere respinta, e con decisa fermezza.
Ma anche perché, oltre alla stravaganza del progetto, v’è ben altro e di più grave in essa; un aspetto che non poteva che suscitare giustamente sentimenti di unanime ed immediata opposizione in ampi settori dell’opinione pubblica, persino di quella - come si dice da noi - di ‘barra bella’, cioè che tutto fagocita e che segue distrattamente le vicende politiche e culturali isolane. L’idea cioè di battezzare, con forza colonizzatrice degna del migliore folclore isolano, il suddetto parco come ‘Golfo dei Fenici’.
I feniciomani archeologi isolani (come è stato sottolineato anche con dure parole), davvero non si smentiscono mai, facendo intendere senza un minimo di pudore critico, con la sconcertante proposta di premio ‘nominale’, che Tharros, Othoca e Neapolis erano luoghi la cui impronta storica è stata data particolarmente da colonie di abitanti costieri di origine fenicia. E diremo che se davvero ciò fosse accaduto, se quella cioè fosse stata la vera verità, la proposta, per quanto sempre scandalosa, si sarebbe comunque mantenuta nei limiti della decenza. Di ben altri omaggi, con umiliante offerta del ‘lato B’ ai potenti, i Sardi di sono resi gloriosamente imbecilli.
Invece le cose sono andate ben diversamente e la storia l’hanno fatta altri, gli indigeni nuragici ancora vivissimi e vegeti in tutta l’Isola, urbani e non urbani, mica dei ‘barbaricini’ barbari che qualcuno ha tentato di mettere nella riserva indiana prima del tempo. Ed è proprio la ricerca archeologica sarda (e non) più avanzata che da tempo ha ridimensionato il ruolo politico degli abitanti e dei mercanti fenici in Sardegna, non fosse per altro per volontà di superare la nota aporia della presenza storica di una grande forza politica e militare capace, come quella dei nuragici, di annientare, alla fine del sesto sec. a. C., l’armata dei Cartaginesi di Malco intenzionati a rendersi padroni dell’Isola.
Tra fenici e sardi nuragici non c’erano dunque affatto rapporti di ‘buon vicinato’, come è stato detto e scritto per salvare capra e cavoli, ma rapporti tra i detentori delle risorse e degli scali e coloro che di queste risorse e di questi scali potevano beneficiare: ma solo a determinate condizioni. Servi insomma questi ultimi, al massimo cauti gestori di stabilimenti e non padroni di porti o addirittura di interi golfi e tanto meno di quello più prestigioso della Sardegna. Anche se servi molto ricchi e capaci di sborsare quanto dovuto per lo sfruttamento della legittima proprietà altrui.
I Tirensi, i Sidonii e gli altri abitanti di sofisticata cultura delle città cosiddette ‘fenicie’ erano certamente di casa nelle città costiere sarde, ma lo erano in quanto accettati pacificamente per incremento dell’economia, anche e soprattutto dai loro potenti predecessori ‘giganti’ di eguale etnia, arrivati dalla Palestina; quelli che si erano fusi, nel corso del seconda metà del Secondo Millennio a.C., con popolazioni di differente ceppo linguistico (indoeuropeo) già presenti in Sardegna.
Ciò dicono con chiarezza i non pochi documenti scritti nuragici, compresa la stele di Nora la quale per contenuti e per forma denuncia, con rabbia impotente dei feniciomani che l’hanno assunta come bandiera, la sua ‘strana’ sardità (che è in fondo la reale ‘nuragicità’) sia con la presenza del ‘pater sardus’ (aba shardan) di ascendenza religiosa semitica palestinese, citato, tra l’altro, con i suoi appellativi, sia con l’uso di un alfabeto del tutto in linea con l’origine stessa della divinità.
Anzi proprio la conferma dell’esistenza dell’alfabeto fenicio arcaico dopo il protosinaitico, il protocananeo e il gublitico nella documentazione scritta nuragica (tra breve si vedranno altri documenti ancora più illuminanti), non può che suggerire il fatto che nel corso dei secoli successivi (a partire dall’XI sec. circa), furono non tanto e solo i fenici della ‘Fenicia’ arrivati nell’Isola, ma anche e soprattutto i nuragici delle coste, a servirsi di un alfabeto più pratico per gli scambi, per i traffici e per i commerci; quello che gli archeologi, gli epigrafisti e gli storici, con miope metodologia, da tempo ritengono di solo uso dei mercanti fenici presenti nelle coste della Sardegna.
E, sia detto per inciso, per questo motivo risulta vano sperare, sulle orme di qualche caparbio archeologo, di trovare prima o poi un alfabeto nuragico d’ispirazione etrusca o greca in sintonia con l’uso degli alfabeti in tutte le regioni dell’occidente del Mediterraneo. I nuragici fino ad Amsicora (e forse ancora più in là) l’alfabeto lo usavano perché lo avevano già, da quasi un millennio, e di esso avevano seguito tutta l’evoluzione storica. Dal pittografico religioso al cosiddetto ‘fenicio’ lineare, il nuovo codice, borghese e mercantile, degli inizi del primo Millennio a.C.
Stele a Parigi

La stele di Nora a Parigi

Tutto ciò, molto e molto poco nello stesso tempo, per porre in doveroso risalto l’assurdità dell’iniziativa, per affermare che dare a luoghi frequentati da Fenici, ma politicamente e militarmente retti ed economicamente gestiti da ‘signori’ e famiglie nuragiche (sia pur con sangue e cultura semitici), la patente di ‘fenici’ è non solo un errore dal punto di vista storico- archeologico ma anche da quello storico -politico perché – come hanno già sottolineato in diversi – proprio quei luoghi deputati al parco, molto più di tanti altri, furono connotati, per ben un millennio, dalla presenza nuragica e Tharsos particolarmente fu la capitale di quella ‘nazione’ diretta dagli aba-y di cui si parla nelle tavolette di Tzricotu, ovvero dai ‘padri’ eroi o santi, effigiati, tra gli altri ‘giganti’, nella ormai famosa statuaria di Monti Prama.
D’altro canto, come ha sottolineato Gianfranco Pintore, il rischio è anche che la trovata della denominazione archeologica finisca per annullare, anche nelle carte geografiche, la dicitura di Golfo di Aristanis, città erede legittima, come si sa, della Tharsos nuragica e non fenicia. Non a caso (il sangue, si sa, non è acqua) vi nacquero e prosperarono i ‘signori giudici’, gli ‘shardana’ dell’Istituzione dell’indipendenza sarda. Non è chi non veda che il nome di ‘Golfo dei Fenici’, costituirebbe, tra l’altro, un vero e proprio affronto per la loro gloria di fieri oppositori allo ‘straniero’ nonché un evidente disprezzo per la dignità della nostra storia.
Roba da ‘sardisti’, dirà qualcuno. Sì, e me ne vanto, perché favole e miti non sono. I miti sono sempre, purtroppo, quelli forestieri. Compresi quelli greco - libici di Iolao e Norace. Oggi più che mai questo vanto mi sento di esprimere. E chi mai potrebbe opporsi con un minimo di orgoglio e di dignità isolana al falso e dilagante partito ‘istranzu’ dei ‘fenicisti’ (oltre che feniciomani) di professione? Non sono forse questi, così come gli ‘italianisti’, i linguisti e gli storici nostrani di ieri e di oggi (quelli che abbiamo talvolta sconfitto nei momenti migliori della nostra unità), sempre disposti e pronti ad emarginarci e a collocarci in una perenne riserva di ‘Barbaria’?

Stele di Nora: documenti, altrimenti è solo aria fritta
Scritto da Gigi Sanna
Martedì 02 Dicembre 2008 09:41
di Gigi Sanna

E’ da tempo che vado dicendo una cosa del tutto pacifica in ambito scientifico, ma che alcuni, evidentemente, ritengono secondaria o del tutto irrilevante quando sostengono le loro tesi: che sono le prove oggettive e documentarie che possono dare credito ed una sicurezza (relativa e mai assoluta) a ciò che si dice. Né vale il fatto che a sostenere il dato, che ‘vuole’ essere scientifico, sia uno che abbia i famosi ‘titoli’ o che scriva nelle più accreditate e specializzate riviste italiane e internazionali (non dico sarde).
Un azzardo (ma anche una sciocchezza, una castroneria o anche una cretineria) resta sempre tale. Un azzardo fu quello di sostenere che i nuraghi erano delle fortezze e che i guerrieri (quelli documentati dai bronzetti) conseguentemente fossero organici ad un territorio fatto per cantoni ‘l’un contro l’altro armati’. Perché lo fu? Semplicemente perché non esistevano documenti veramente inoppugnabili che lo potessero dimostrare. C’erano però i ‘documenti’ archeologici e quindi delle prove, giudicate attendibili e ‘tangibili’, di quelle affermazioni che però, da parte dei più prudenti, erano articolate con un uso molto esteso del condizionale.
Tutto il mondo sa che i documenti archeologici sono ostinatamente muti e quando si pretende di farli parlare, quel linguaggio è solo apparentemente comprensibile, per nulla sicuro. Il più delle volte sono le ‘lingue’, sempre ‘interessate’ e di parte degli studiosi a parlare, non loro. Un azzardo fu (ed è ancora) anche il sostenere che i ‘nuragici’ non scrivevano in base a erronee considerazioni legate alle concezioni di una civiltà isolana ‘barbarica’, non cittadina, non mercantile, per nulla dipendente da una economia di largo respiro mediterraneo. Una civiltà ritenuta isolata perché isolana, di cultura rozza e brillante nello stesso tempo, ma di una periferica e del tutto marginale terra dell’Occidente del Mediterraneo.
Ora, quell’azzardo e tanti azzardi ancora (si pensi all’ipertrofica valutazione ‘archeologica’ da parte di non pochi studiosi dell’elemento fenicio in Sardegna, tema di polemica di questi giorni) stanno sotto gli occhi di tutti. Ma, si sa, chi poco rischia pochi pesci avrà nella rete. E l’azzardo di per sé, anche se preoccupante, non è certo biasimevole perché la rete potrebbe pur sempre riempirsi, a dispetto di tutto e di tutti. Anzi, si sa che la scienza va avanti più per tentativi al limite del possibile e per azzardi, che danno talvolta motivo di movimento, piuttosto che per ‘doverose’ prudenze e ‘legittime’ ma stagnanti cautele.
Degli azzardi però, piccoli o grandi che siano, bisogna essere ben consapevoli e denunciarli apertamente, con quella che si dice onestà intellettuale, allorché , non dico che si percepiscono, ma balzano evidenti, nel momento della ricerca, delle forti difficoltà contrastive o delle aporie che rendono poco o per niente sicuro il dato che si va proponendo. Altrimenti in qualche modo si tende a nascondere le carte, a mettere la testa sotto la sabbia, a far finta di nulla e, in definitiva, a barare. Invece per alcuni, anche di quelli che abitano certi quartieri ‘esclusivi’ e che sono sempre pronti a fare inni alla scienza ed al sapere, il rischio sconsiderato, quello cioè che si corre quando la ragione non ti offre un ombrello ampio e sicuro, non sembra essere preso in considerazione. Si va tranquilli sempre e comunque, anche quando si scivola e si fa un ruzzolone un giorno sì e l’altro pure.
Tazza di Alessandria

La ciottola trovata ad Alessandria (fronte)

Tazza Alessandria 2

Ciottola di Alessandria (retro)

E’ questo, secondo me, anche se meno eclatante, il caso del prof. Sauren che non scottato dal fatto che abbiamo tentato (e, credo, con tutto il garbo di questo mondo) di fargli capire che la paleografia e l’epigrafia sono discipline severissime con cui non si può mai scherzare e che la cosiddetta ‘coppa di Alessandria’ non può essere che con caratteri greci ed in lingua greca, ‘azzarda’ ora, riprovando (il tentativo, come abbiamo appreso, non è recente) senza rete alcuna, una lettura tutta sua del ‘nostro’ codice sardo-fenicio del X-IX secolo a.C.
Per lo studioso non si tratterebbe infatti di un alfabeto arcaico di tipologia fenicia, come universalmente affermato, ma di un alfabeto tardo (con sillabe, vocali e consonanti), occidentale ed ‘iberico’, addirittura del I secolo a.C. Con un contenuto, in lingua semitica, davvero bello e gioioso: un canto autunnale di vignaioli che pestano l’uva facendo, addirittura, ‘quattro passi avanti e quattro indietro’. Che dire? Il canto festoso e ritmato dei vignaioli sardi non ci sorprende dal momento che sembra essere consequenziale alla gioia vorticosa di chi ‘muove la tazza (di Alessandria) stando nel mezzo’.
Credo che Nora ed Alessandria debbano gemellarsi al più presto per questo gaudio bacchico, così antico e pieno di mistero, o se si vuole di ‘r(u)z’ dal momento che per la nuova epigrafia norense i vecchi ‘nun’, gli eredi snelli dei simpatici serpentelli protosinaitici, vanno trasformati in ‘zeta’, più giovani di quasi un millennio.
Gentile prof. Sauren, mi perdoni, ma uso volutamente l’ironia per due motivi: perché non trovo affatto giusto che lei ironizzi gratuitamente e, direi, incoscientemente (ovvero senza rendersi conto che l’ironia può rimbalzarle malamente in faccia) sulla Prosper che parla (certo sbagliando) di ‘porci’ riguardo al contenuto della Stele di Nora e perché, francamente, devo dire che non mi rimane altro modo per dire quello che correrei il rischio di dire in maniera per niente garbata.
Vorrei però subito precisare una cosa sulla sua singolare ‘lettura’. Nessuno più di me, mi creda, alle prese da qualche anno con documenti straordinari che parlano di cose straordinarie, quasi incredibili, sarebbe propenso ad essere ‘tollerante’ e a darle credito perché niente, neppure un canto ritmato di vignaioli sardi festanti al tempo del dominio di Roma, mi stupirebbe e sarebbe da scartare a priori. E chi mai potrebbe respingere, stando come stanno le cose, un qualsiasi dato con sufficienza e disinvoltura?
Tra le centinaia e centinaia di interpreti e traduttori della stele, palestra ormai di ermeneuti, dilettanti e non, di tutto il mondo, fra i mille fraintendimenti diversi, in una comicità oppositiva tanto evidente che sfiora il grottesco, potrebbe essere proprio lei quello che ha azzeccato e ha inforcato gli occhiali giusti. Ma le prove? Qui quelle divine lenti, anche per noi! Quando si va controcorrente ed in maniera che provoca scandalo e quasi indignazione (guarda un po’ un altro, magari senza saperlo, che ci vuole togliere qualcosa di nobile e di importante) bisogna supportare con vigore il tutto e tirar fuori documenti su documenti. E se li si ha, occorre tirar fuori anche quelli che pongono in campo altri studiosi e metterli a confronto.
Questo mi sembra il metodo o parte consistente del metodo. Altrimenti è proprio aria fritta, elucubrazioni e niente di più. Per quanto mi riguarda io ho posto da qualche anno all’attenzione degli studiosi un documento che, perlomeno, mi sembra che dimostri che i vignaioli ed il mosto di Nora non c’entrano proprio per nulla. Anzi denuncia chiaramente la frivolezza - diciamo così - dell’argomento che non può non ‘offendere’ il
Coccio di Orani

Trascrizione del coccio di Orani

documento sardo. E’ questo il frammento di vaso di Orani (gemello del coccio scritto con le due apparenti Tanit pubblicato in questo blog) che riporta non solo le stesse lettere ma anche, inopinatamente, lo stesso tenore della stele di Nora. E’ quel coccio che ha fatto capire, e
Concio di Bosa

Concio di Bosa

definitivamente, all’assiriologo Remo Mugnaioni dell’Università di Lyon, in una appassionata e franca lettura paleografica ed epigrafica del documento che ricorderò per sempre (avvenuta a casa mia l’anno scorso), quello che aveva ben capito anche in Francia, nella sua Università: che la stele di Nora non può essere che nuragica essendo il coccio di Orani nuragico.
Lo ha confermato poi, pubblicamente, come molti sanno, nella sala consiliare di Oristano davanti a centinaia di persone. E allora, delle due l’una: o il coccio è falso e tutto il discorso non vale un fico secco oppure è autentico e vale un tesoro dal momento che in esso è presente un linguaggio formulare e ripetitivo, quello stesso dell’incipit della stele norense. Ma falso non è, anche e soprattutto per un semplicissimo motivo: perché illumina e conferma, per altro in un modo paleografico tutto suo, un noto aspetto d’incertezza della stele di Nora, la presenza cioè, dopo lo ‘šin’ finale di TRŠŠ, del segno del ‘waw’ e non del ‘nun’ all’inizio della seconda riga (con buona pace del nostro buon S. Dedola che pure è uno dei pochissimi che si è sforzato, con intelligenza e competenza, di dare certezza e autenticità a tutte le lettere del documento).
Ora il coccio di Orani, se ben ricordo, è comparso nel blog in cui scriviamo, e pochi giorni dopo, ben in vista, al centro di una delle pagine dell’Unione Sarda; cosa questa che ha fatto sobbalzare più di uno studioso che, evidentemente, non lo aveva ancora visto sebbene da tempo pubblicato nella rivista ‘Nuoro Oggi’ ( 1996, anno IX, gennaio) e ripubblicato e commentato nel mio libro (Sardoa Grammata, pp. 311 -315 e p. 553). Ma anche il concio della chiesa extra muros di Bosa, anch’esso reso pubblico da G. Pintore a corredo di un mio intervento, avrebbe dovuto far riflettere il professore che tanto è disposto a collaborare e ad aiutare gli scienziati ‘colleghi’ sardi.
C’è o non c’è scritto ‘ ŠRDN’ oltre che YHW? Lasciamo stare YHW, se proprio è indigesto a molti, ma la sequenza di scrittura ‘fenicia’ ŠRDN c’è o è solo parto di una mia insana visione? E se c’è scritto, come c’è scritto, ŠRDN, il nome (o appellativo che sia) non è lo stesso della Stele di Nora? E l’altare in arenaria di Zeddiani, anche se malconcio, ma giudicato scritto anche dall’epigrafista di fenicio Maria Giulia Amadasi durante un sopralluogo di pochi anni fa, forse con la scritta BTRŠŠ, proprio non suggerisce nulla? Il prof. Sauren replicherà, ci scommetto, dicendo: ma io non conosco nessuno di questi documenti.
Ma questo è il punto. Non conoscere, dire ed argomentare senza sapere. E la colpa è in fondo la nostra, forse anche la mia che dovrei sforzarmi molto di più, non fare ‘spallucce’ e cercare di ‘reclamizzare’ i testi sardi scritti con i tasti giusti. Ma è colpa soprattutto di chi è logisticamente meglio armato di me e sempre pronto a fornire anche dotti riferimenti su notissimi ed ‘innocui’ documenti, ma si guarda bene dal fare riferimento a quelli che avrebbero impedito ad altri di scivolare, suggerito di lasciar perdere e di nascondere ancora di più una stramba traduzione nei meandri del sito di dottrina giuridica di J. Foviaux.
Quando non si conosce nulla, soprattutto di cose di una terra lontana e poco conosciuta, e si scrive così, come viene viene, quasi ‘a sa macconatza’, con sprezzo totale del pericolo, l’azzardo, non è certo simpatico e tanto meno, come ho detto prima, foriero di alcun utile movimento. Anzi produce somma confusione per un argomento, come quello del ‘vero’ significato della Stele, che a molti fenicisti ‘feniciomani’, sempre di più in difficoltà, farebbe immenso piacere lasciare nel buio o, dicendo la parola che davvero ci vuole, nel casino più assoluto. Confusione e casino ancora maggiori quando si aggiungono ed entrano in campo la buona fede, la simpatia e, soprattutto, la dottrina di un linguista che nessuno può mettere in discussione.
Comunque, egregio professore, resti in linea perché tra qualche giorno su questo Blog uscirà il documento decisivo, almeno così credo, sulla ‘nuragicità’ della stele di Nora. Proprio a Pula l’anno già visto l’estate scorsa in anteprima, durante una mia conferenza promossa dal comune della stessa città. C’è in esso l’Ab(a) ŠRDN, il Sardus Pater dei Sardi, come protagonista, il dio di TRŠŠ, il dio dei nostri padri dei padri, mica l’irrilevante nonché fasullo ‘mosto’ (trs) di una qualsiasi antica o antichissima cantina della Sardegna.

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